letterina 20090412

L'affondo

Noi siamo il profumo di Cristo

La vita passa per il naso, i profumi sono la via per conoscere la vita fuori di noi. E’ difficile dimenticare il profumo legato ai ricordi, ai fatti, alle storie che ci riguardano. Il dolore di una morte è stampato nel cuore per sempre, la fragranza di una nascita è poesia per la mente che trascina con sé la bellezza del suo primo odore.
Spesso ci ricordiamo momenti importanti della nostra vita per le essenze che ci hanno accompagnato o per il tanfo che ci ha oppresso. Gli odori fanno famiglia, i profumi di cucina riempiono una casa. La decomposizione porta il marcio alle narici e l’amore fulmina con l’odore della pelle della persona amata che stampiamo in noi come timbro di alleanza.
Anche la salvezza profuma, e la condanna non è da meno. C’è un profumo di verità consegnato dalla parola del Maestro, venuto nella storia dolorosa dell’umanità per scacciare via il cattivo odore della morte e consegnare aria pulita alla creazione perché possa di nuovo essere abitata liberamente. Giovanni, l’apostolo dell’amore, nel suo Vangelo ci ha consegnato anche i profumi della resurrezione, come se avesse voluto passarci, se mai fosse stato possibile,la sua esperienza, la visione dell’assurdo, attraverso il profumo che sentì quel giorno quando, entrato nel sepolcro ormai vuoto, le sue narici percepirono che la morte di prima era passata.
Sul Golgota, Giovanni, impietrito sotto la croce, compagno nel dolore, sentì la fine dell’amico attraverso il naso, un odore inconfondibile, quello della morte, che costrinse il suo cuore a fuggire dalla certezza della vittoria.
Il discepolo più amato dal maestro forse avrà pensato a quando, la sera dell’ultima cena, posando il capo sul costato dell’amico, aveva creduto che il battito di quel cuore non si sarebbe mai arrestato e ora, che la morte chiudeva il sipario sul domani, sentì quell’odore trionfare sulle attese degli uomini.
Il tanfo della morte sanciva la sconfitta, la croce sembrava seppellire la speranza e inchiodare l’idea della salvezza a una parola vuota, senza conseguenze.
L’apostolo ricordava bene il terribile fetore della decomposizione che era venuto fuori dalla tomba di Lazzaro, quando Maria, la sorella dell’amico prigioniero del sepolcro, aspettava che il Maestro con la sua presenza sconfiggesse la morte.
Maria, che da tempo seguiva Gesù e aveva scelto la parte migliore della sua compagnia, in tempi di banchetti aveva offerto balsamo profumato per ungere i piedi del Maestro e carezzargli il capo.
Un balsamo di libbra pesante da conservare per la sepoltura, un balsamo appena asperso da Nicodemo e Giuseppe sul corpo del crocifisso prima di calare frettolosamente il lenzuolo sulle sue spoglie e seppellirlo senza onori a causa della festa. Nessuno poteva sapere, perché nessuno aveva
compreso, che il terzo giorno quel balsamo sarebbe stato portato al sepolcro inutilmente. Nessuno poteva immaginate che sarebbe stato consegnato ala terra, perché l’odore ripugnante della morte era stato sepolto per sempre dalla vittoria.


GENNARO MATINO

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letterina 20090405

L'affondo

Il
monte degli ulivi

Dalla cima del monte degli ulivi si può vedere tutta la città Santa di Gerusalemme,perciò possiamo capire meglio perché Gesù vedendo la città pianse e pronunciò le parole raccolte da Luca, dal significato così forte e profondo.
Credo che il loro valore sia da intendere non solo perché Gesù prevedeva la distruzione della città e del suo bellissimo Tempio,ma, in particolar modo perché era già a conoscenza che di lì a poco sarebbe venuta la sua morte sulla croce per mano di quegli stessi uomini che pochi giorni prima lo esaltavano aprendogli le porte della città.
Nonostante questa profezia si sia realizzata più di 2000 anni fa, il messaggio che racchiudeva è tuttora valido e presente. Pochi giorni fa, in un intervista,una giornalista mi ha posto questa domanda: “Se Gesù scendesse sulla terra in questo periodo di conflitti e vedesse questa città, quali sarebbero le sue parole?”.La mia risposta l’ha lasciata perplessa:”Gesù oltre a piangere, si dispererebbe molto perché questa città non è più (o forse non lo è mai stata ) la patria della pace e della solidarietà come il suo nome la descrive ( Yeroshalaim ),e forse ha perso anche la santità che il suo nome arabo Al-Quds racconta”. Oggi abbiamo bisogno di riscoprire il mistero di questa città cercando di renderla davvero la capitale spirituale del mondo, perché questo era ed è il volere di Dio. Gerusalemme deve tornare ad essere il punto di incontro tra il cielo e la terra, tra Dio e gli uomini, tra tutte le religioni del mondo.
Abbiamo l’obbligo di continuare ad impegnarci per far diventare Gerusalemme un luogo condiviso in modo fraterno tra i popoli che la abitano. Un punto d’incontro tra le religioni del mondo, aperto a tutti, sia in tempo di pace sia di guerra e di conflitti, perché il desiderio di Dio è che Gerusalemme diventi la porta, il luogo di passaggio tra due mondi, quello terreno e quello dei cieli.
Solo in questo modo il Signore non piangerà più e questa città sarà davvero la città dello Spirito.


Don Raed Abusahlia, Parroco di Taybeh-Efraim


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letterina 20090329

L'affondo

Spreco

Alla periferia della Pasqua, alla soglia della settimana decisiva, Gesù è a Betania e Maria gli unge i piedi con del nardo profumato, li asciuga con i suoi capelli, in silenzio, senza una parola:  parlano le mani, la tenerezza delle mani (cfr.Gv12,1-8). Quel vaso di nardo era molto prezioso, valeva una cifra enorme, dieci volte ciò che daranno a Giuda per tradire Gesù. Perché questo spreco? Ma il Vangelo è pieno di questo richiamo a non calcolare, a non vivere con la logica del mercato. E’ un Vangelo pieno di spreco. C’è il seminatore che spreca la semente tra rovi e sassi e strade. C’è lo spreco di quella festa che il padre organizza per il ritorno del figlio prodigo e debole. Spreca il suo denaro quel padrone che dà la paga di un giorno a chi ha lavorato un’ora soltanto. C’è uno spreco d’amore quando Gesù ripete:” Amerai con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutte le forze” (Mt 22,37), ma l’amore o è eccessivo o non è. C’è uno speco di perdono nel cuore di Dio:” Fino  a settanta volte sette, perdonerai” (Mt 18,22).

Nell’equilibrio illusorio del dare e dell’avere, il Vangelo in troduce lo squilibrio del dare per primo, dare in perdita, dare senza aspettare il contraccambio: a chi ti chiede la tunica, lascia anche il mantello; se uno ti chiede di accompagnarlo per un miglio, cammina con lui tutta la notte (cfr Mt 5,40-41). Il Vangelo ama lo spreco “per la vita”, perché questo mostra il volto dio Dio, un Dio che invia i suoi germi di vita a piene mani, senza contare né calcolare. Dio non è il grande calcolatore del consumo, non è il ragioniere dell’anima, non ha un cuore di mercante. Infatti, chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca avrà una ricompensa eterna.

Amare è dare: evangelicamente, dissennatamente, generosamente, divinamente dare, come Maria di Betania, e poi come Gesù: perché tutto ciò che dai con tutto il cuore ti avvicina all’assoluto di Dio.  

Ermes Ronchi, Sulla soglia della vita

 

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letterina 20090322

L'affondo

Cammino in salita


A dire il vero, noi non siamo molto abituati a legare il termine “pace” a concetti dinamici. Raramente sentiamo dire:”quell’uomo si affatica in pace” , “lotta in pace”, “strappa la vita con i denti in pace”. Più consuete nel nostro linguaggio sono invece, le espressioni: “sta in pace”, “sta leggendo in pace”, “medita in pace” e ovviamente “riposa in pace”, La pace, insomma ci richiama più la vestaglia da camera, che lo zaino del viandante. Più il conforto del salotto che i pericoli della strada. Più il caminetto, che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto, che il traffico delle metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa, che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte che i rumori del meriggio. La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia, rifiuta la tentazione del godimento. Non ha molto da spartire con la banale “vita pacificata”, non elude i contrasti. Si, la pace, prima che traguardo, è cammino, cammino in salita. Vuol dire che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi. I suoi rallentamenti e le sue accelerazioni. Forse anche le sue soste. Se è così occorrono attese pazienti.
E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito. Ma chi parte.


Tonino Bello

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letterina 20090315

L'affondo

Cari bergamaschi...


Care sorelle, cari fratelli, vi saluto con semplicità e affetto.
Vi saluto con discrezione e rispetto: inizio delicato e trepidante, come il sì affidato al Signore e al Santo Padre, che mi hanno chiamato e mandato a servire la vostra fede, la vostra speranza, la vostra vita. Vi saluto nel nome del Signore.
La contiguità della terra bresciana a quella bergamasca non è stata motivo di scontate frequentazioni e di ovvie conoscenze: fino ad oggi ho sempre ricevuto più che dato, anche da Bergamo. Se la mia fanciullezza è stata segnata dalla meraviglia di papa Giovanni e la mia giovinezza dalla passione di Papa Paolo VI, sono cresciuto, diventato prete e posto al servizio del Popolo di Dio dall’indimenticato mons. Luigi Morstabilini e dal caro mons. Bruno Foresti, padri del mio sacerdozio. Il loro ricordo, colmo di riconoscenza, mi introduce al saluto più intenso e commosso: quello al Vescovo Roberto e al suo ausiliare Lino. La cordiale amicizia dei Vescovi lombardi, della quale ho potuto godere da quando sono stato ordinato Vescovo, mi ha introdotto alla stima, alla confidenza, alla condivisione con mons. Roberto e mons. Lino. La loro benedizione mi accompagni e il mio affetto li raggiunga. Con loro desidero salutare, con fraternità sentita, tutti i vescovi bergamaschi e immediatamente tutti e ciascuno dei sacerdoti e diaconi di questa Chiesa, con i quali, in un modo tutto particolare condividerò la missione evangelica. Il saluto raggiunga tutte le comunità religiose, le persone consacrate, e tutti voi laici, donne e uomini della Chiesa di Dio che è in Bergamo, a cui oggi è affidata una particolare missione nel mondo e per il mondo. Sono figlio di una grande Chiesa e il Signore mi manda a servirne una altrettanto grande : sarei incosciente se non fossi trepidante, ma sarei fuorviato se ritenessi che la grandezza consista nei numeri e nelle opere, pur provocanti e forti di responsabilità, e non piuttosto nella fedeltà al vangelo, che ammiriamo riconoscenti nella storia di chi ci ha preceduti e vogliamo con tutto noi stessi perseguire nell’oggi che il Signore ci dona di vivere. E’ una fedeltà che apre il cuore alla speranza, che illumina gli occhi per cogliere i segni dei tempi, che, pur consapevoli delle debolezze, delle contraddizioni, delle crisi e delle paure, delle sofferenze e delle prove che ci attraversano, è alimentata dalla certezza dell’amore di Dio, manifestato in Cristo Gesù, del quale siamo chiamati ad essere testimoni coraggiosi e credibili. Ancora una volta vi saluto ed abbraccio, in attesa di poterlo fare personalmente. A tutte le autorità, alle istituzioni che rappresentano, all’intera comunità bergamasca, giunga il mio pensiero di stima e vicinanza.
E mentre ringrazio il Santo Padre per la fiducia che mi ha manifestato, su tutti invoco la benedizione del Signore, con particolare ricordo per i più piccoli e i più deboli.


+ Francesco Beschi, Vescovo

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letterina 20090308

L'affondo

Con il dovuto rispetto

Il digiuno non fa più parte del linguaggio dei cristiani.
E’ una parola che usano i medici che annunciano un intervento chirurgico, gli infermieri che ricevono prenotazioni per prelievi ed esami.
Ma i cristiani, dopo secoli e santi di molti digiuni, usano la parola con imbarazzo.
Ci sono buone ragioni per non fare del digiuno una priorità pastorale.
In casa vivono bambini e anziani; ci sono ritmi di lavoro, stili di vita, relazioni abituali che impediscono di gestire la propria vita come si vorrebbe.
Poi esistono modi di sfumare il digiuno per cui uno quasi non si accorge: un pasto ridotto, un piatto solo, meno o niente fuori dai pasti.
Perciò quando tra gli avvisi si dice:”… e poi ricordo che il mercoledì delle ceneri e il venerdì santo è giorno di digiuno, oltre che di astinenza della carne”, nessuno se ne preoccupa.
Tuttavia se il papà, venerdì sera, tornando dal lavoro dicesse:
“Stasera non mangio perché è venerdì di Quaresima: vado in chiesa per pregare un po’ e portare un’offerta per la carità”, non credo che la cosa passerebbe inosservata.
Il venerdì sera può dunque raccontare la commozione di guardare il Crocifisso e un residuo di serietà a proposito del digiuno.

Mario Delpini

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