letterina 20190602

Lo conosciamo.

Martedì ho partecipato a Gorlago ai funerali di Mons. Giuseppe Cesani, mio primo parroco da prete novello a Leffe. Il ricordo, al termine della celebrazione, è stato fatto dal Vescovo bergamasco Mons.Bruno Foresti, ai tempi rettore del Seminario di Clusone, dove don Giuseppe era vicerettore. Un ricordo semplice e commovente allo stesso tempo, pronunciato con una voce sommessa sicuramente per l’età del presule -96 anni - ma, anche, per la commozione.
Ripercorrendo alcuni tratti del defunto, il Vescovo Bruno è esplicitamente passato dal “Monsignore” al “don” per giungere semplicemente a “Giuseppe”, in virtù del legame che li univa nell’amicizia sacerdotale. E mentre seguivo questi passaggi mi sovveniva una pagina di Jean Guitton ne “Il mio testamento filosofico”.
Coincidenze: sul sito santalessandro.org trovo in questa settimana lo stesso riferimento. Nel testo, quasi una pièce teatrale divisa in tre parti, l'autore si confida al suo pubblico con il cuore in mano. Tre sono gli atti: la sua morte (ambientata all'interno della sua camera), i suoi funerali (a Les Invalides di Parigi), il suo Giudizio (in cielo, di fronte al Tribunale di Cristo). Guitton si trova a tu per tu con vari personaggi (dal Diavolo all'Angelo custode, da Pascal a Bergson, da de Gaulle a Mittérrand) venuti a tentarlo e a porgli domande sulla sua esistenza e sulla sua fede. In tal modo l'autore si troverà a disquisire dei perché della fede, del legame tra fede e ragione, del senso del male, dell'amore e della vita, rivivendo in una sola notte tutta la sua esperienza, dai suoi maestri, ai suoi peccati, ai suoi amori.

Nella sezione riguardante il suo giudizio, immagina di trovarsi presso il tribunale celeste. Entra la corte. In cattedra il Signore Gesù Cristo. Sotto di lui San Pietro con le chiavi del regno dei cieli.
Si aprono i battenti della grande porta sul fondo. “Il Maestro Jean Guitton, Grande Maestro...”.
“Non lo conosciamo”
Entra un usciere, si alza un assessore: il secondo fa le domande, il primo risponde. “Chi chiede di comparire oggi davanti a questa augusta corte?” “Il Maestro Jean Guitton, Illustre Filosofo, Membro eminente e decano, a causa dell’età, dell’Accademia francese, Professore onorario alla Sorbona, Autore di cinquantaquattro opere e di trecento opuscoli, Uditore laico al Concilio Ecumenico Vaticano II, Amico di numerosi Sovrani Pontefici, Consigliere dei Presidenti della Repubblica, Uomo universale, onore della lingua e del pensiero francese.”
“Non lo conosciamo.
Chi chiede di comparire oggi davanti a questa corte del Cielo?”. “Il Signor Jean Guitton, Filosofo, Professore onorario alla Sorbona, membro dell’Accademia Francese.”
“Non lo conosciamo.
Chi chiede oggi di essere giudicato da Cristo Signore?”. “Jean Guitton, filosofo, peccatore.”
“Jean Guitton, peccatore”. “Lo conosciamo”

Questa volta, giunge questa risposta: “Lo conosciamo. Entri, lui che è uscito dal tempo, e sia introdotto nell’eternità perché si compia in lui l’opera della giustizia e della misericordia divina”.
Non conteranno titoli, meriti, onorificenze, cariche avute, carriere.. nulla! Conterà la consapevolezza di essere peccatori, bisognosi di stare per sempre insieme a Colui che è Amore che perdona. 

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letterina 20190526

Ti passerà la rabbia e sentirai l’amore.

Leggendo un libro, “Le paure che ci abitano”, ho trovato, tra le altre, una paginetta nella quale ne viene citata un’altra, con le parole rivolte da Tiziano Terzani a Oriana Fallaci, in “Lettere contro la guerra”. La affido anche a voi, con l’interrogativo che essa ci pone: onorare l'intelligenza, (cioè imparare a pensare, oltre le paure e la rabbia), stare in faccia alle montagne o chiuderci nella scatola di un appartamento?

«Mi piace essere in un corpo che ormai invecchia. Posso guardare le montagne senza il desiderio di scalarle. Quand'ero giovane le avrei volute conquistare. Ora posso lasciarmi conquistare da loro. Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne . Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell'Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. E continuano a venire.
L'inverno scorso davanti al mio rifugio passò un vecchio Sanyasin vestito d'arancione. Era accompagnato da un discepolo, anche lui rinunciatario. "Dove andate, Maharaj?" gli chiesi. "A cercare Dio", rispose, come fosse stata la cosa più ovvia del mondo. [ ... ]
Per questo sto anch'io ritirato in questa sorta di baita nell'Himalaya indiana, dinanzi alle montagne più divine del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì, maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti, come tutto nell'universo. La natura è una grande maestra, Oriana, ed ogni tanto bisogna tornare a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d'erba al vento, e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia e sentirai l'amore».

 

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letterina 20190519

Cosa stai guardando?

A volte, anche tra noi, si sente qualcuno dire che non va in chiesa per colpa di questo o di quello o perché quelli che ci vanno sono peggiori degli altri. Può essere vero. Come può essere un alibi o una scusa alla pigrizia e all’impegno. Questa storiella mi ha fatto pensare...

Un giorno un giovane andò dall'eremita e disse: «Padre non andrò mai più in chiesa!» L'eremita gli chiese il perché.
Il giovane rispose: «Eh! Quando vado in chiesa vedo la sorella che parla male di un'altra sorella; il fratello che non legge bene; il gruppo di canto che è stonato come una campana; le persone che durante le messe guardano il cellulare, e tante altre cose sbagliate che vedo fare in chiesa.» Gli disse l'eremita: «Va bene. Ma prima voglio che tu mi faccia un favore: prendi un bicchiere pieno d'acqua e fai tre giri per la chiesa senza versare una goccia d'acqua per terra. Dopo di che, puoi lasciare la chiesa.»
E il giovane pensò: troppo facile! E fece tutti e tre i giri come l'eremita gli aveva chiesto. Quando ebbe finito ritornò dall'eremita: «Ecco fatto, padre...»
E l'eremita rispose: «Quando stavi facendo i giri, hai visto la sorella parlare male dell'altra?» Il giovane: «No!»
«Hai visto la gente lamentarsi?» Il giovane: «No!»
«Hai visto qualcuno che sbirciava il cellulare?» Il giovane: «No!»
«Sai perché? Eri concentrato sul bicchiere per non far cadere l'acqua. Lo stesso è nella nostra vita. Quando il nostro sguardo sarà unicamente rivolto a Gesù Cristo, non avremo tempo di vedere gli errori delle persone.»

Chi va via dalla Chiesa a causa delle persone non è mai entrato a causa di Cristo...

 

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letterina 20190512

Mons. Egidio Corbetta. 

Il 13 maggio di 10 anni fa moriva Mons. Egidio Corbetta, nato a Palazzago il 24 giugno 1924.
E qui è sepolto, nella cappella dei sacerdoti del cimitero.
Ricordo il giorno dei funerali a Bergamo, nella Basilica di S. Alessandro in Colonna. Proprio nella Parrocchia dove risiedeva da molti anni e dove venne composta la salma, nella cappella dell’Oratorio dell’Immacolata.
Immacolata, appunto, perché don Egidio ha legato indissolubilmente il suo nome a quello del Coro dell’Immacolata in anni davvero gloriosi, di cui a volte raccontava aneddoti a noi, che l’abbiamo avuto anche come insegnante di musica in Seminario, uno tra tutti l’incontro con Renato Zero che per lui era un “ragazzotto”: gli si parò davanti negli studi Rai e non collimava del tutto con la meticolosità del maestro.
Istintivamente, nei giorni della morte, fotografai le sue mani, pensando a quante volte avevano diretto un solfeggio, una prova, un concerto. E quante volte avevano benedetto, assolto, consacrato. Mani messe a servizio del Signore attraverso quella via straordinaria che è la musica e quel dono sempre grande che è il sacerdozio. Lo diceva lui stesso nella riflessione per il suo 50° di messe nel 1997. Ora, a 10 anni dalla morte, lo vogliamo ricordare: è uno dei sacerdoti nativi di Palazzago che ebbe la cittadinanza onoraria.
Lo faremo domenica 26 maggio. Alle 16.00 nella Chiesa Parrocchiale il Coro dell’Immacolata presenterà un’elevazione musicale in suo ricordo. Alle 18, con lo stesso Coro, pregheremo per lui nella celebrazione; concluderemo con la cena in oratorio.

Originario di Palazzago, 85 anni, è stato maestro in Sacra Composizione (1947-1955), vice direttore dell'Oratorio dell'Immacolata (1955-1964), docente al Seminario diocesano per quasi quarant'anni, direttore dell'Istituto Santa Cecilia. Dal 1955 Maestro di Cappella del Coro dell'Immacolata. Nel 1984 mons. Corbetta venne insignito del titolo di Cappellano di Sua Santità. E’ morto a Bergamo il 13 maggio 2009

 

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letterina 20190504

L'arsenale della pace

“L’11 maggio ci troveremo in piazza insieme a migliaia di persone per testimoniare che una Pace vera è possibile, ma deve iniziare dall’impegno di ognuno di noi”. Chiara, del gruppo Sermig di Bergamo, racconta così il 6° Appuntamento dei Giovani della Pace, a Bergamo l’11 maggio.
Insieme al Sermig – Arsenale della Pace di Torino, organizzatore dell’Appuntamento, un gruppo di giovani di Bergamo si sta dedicando alla preparazione dell’11 maggio,
con centinaia di incontri in scuole, oratori, associazioni, Istituzioni: “L’11 maggio sarà il punto di arrivo di un percorso che già da tempo sta coinvolgendo la città. Quando andiamo nelle scuole o negli oratori riflettiamo con i ragazzi che incontriamo sul nostro tempo, passiamo loro un contenuto. Poi li invitiamo a continuare questo ragionamento in piazza”. Una piazza, Vittorio Veneto, vuota di odio: “Non urleremo contro qualcuno, saremo lì per testimoniare l’impegno dei giovani”. Un impegno molto concreto, che sarà visibile già in piazza con alcune azioni, come la pulizia finale degli spazi utilizzati.
Gli incontri sul territorio sono ricchi di piccoli avvenimenti significativi: “Una delle cose più belle – racconta Marta, un’altra ragazza del gruppo – è riuscire ad instaurare un dialogo sincero con gli adulti. La scorsa settimana, dopo un incontro di presentazione in una scuola, un professore ci ha detto che quello che stiamo facendo è vita. Mi sono commossa”. Steven, un altro giovane del Sermig di Bergamo, racconta: “La fatica è tanta e i momenti di scoraggiamento ci sono: a volte tutto sembra più grande di noi. Ma poi, puntualmente, succede qualcosa che ci ricorda il senso di quello che facciamo: qualcuno che ci accoglie in modo particolare, qualcuno che si entusiasma, qualcuno che riconosce nell’11 maggio una speranza per tutti”.
Il gruppo di Bergamo è legato da 13 anni al Sermig – Arsenale della Pace di Torino realtà di solidarietà attiva da più di cinquanta anni a servizio dei poveri e dei giovani. “L’incontro con l’Arsenale della Pace ci ha spinti a realizzare qualcosa sul nostro territorio: da dieci anni svolgiamo attività con i giovani, abbiamo un centro di raccolta, smistamento e spedizione di materiale sanitario e da poco anche un piccolo orto”. Quest’anno, poi, il grande salto: “Abbiamo vissuto gli Appuntamenti dei Giovani della Pace precedenti, in particolare quello di Napoli nel 2014 e quello di Padova nel 2017 e siamo rimasti così colpiti che abbiamo deciso che una cosa così bella doveva accadere anche nella nostra città”.
Programma completo al sito www.giovanipace.org. Per ulteriori informazioni, rivolgersi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o a tel. 334.6568.303 – 334.6568.287

 

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letterina 20190428

Sei felice?

Sei felice? Abbastanza. A momenti. Rispondere «sempre» sembra impossibile.
Alla prova dei fatti la nostra costitutiva fragilità rende la meta quasi irraggiungibile: essere limitati e mancanti sembra incompatibile con la piena felicità.
Siamo quindi a un bivio.
Da un lato c’è la via in salita che trasforma la mancanza in inventiva: il culto, la politica, l’arte, la scienza, il lavoro, e tutto ciò che l’uomo crea proprio perché la felicità gli manca. I Greci imboccarono questa via e della sofferenza fecero un cammino. Non la rimossero, ma la trasformarono in occasione: non fuggirono in un mondo in cui morte e dolore non esistono, anzi ne fecero la scuola dell’arte di vivere.
Dall’altro lato c’è una via in discesa che rifiuta la vita così com’è o ne fa un alibi per disimpegnarsi. La mancanza non è vita e va rimossa, la sofferenza non serve a nulla, il limite non può diventare ricerca. Fontana tagliava le tele per ricordarci che abbiamo ferite-feritoie da tenere aperte per affacciarci sulla realtà, ma noi corriamo a chiuderle e cancelliamo le cicatrici con un photoshop mentale. Fatemi gioire: happy hour, happy meal, happy pills...
Le più grandi scoperte e opere umane sono il frutto di un’eroica fiducia nel desiderio, nella mancanza, nella sconfitta: Dante, Dostoevskij... Lo dice così il poeta Zagaevskij in Venerdì Santo:

«Ho ascoltato la Passione secondo Matteo
che tramuta in bellezza il dolore.
Ho letto Fuga di morte di Celan
che tramuta in bellezza il dolore.
Nei corridoi del metrò il dolore non si tramuta,
solo perdura, senza tregua».

Esiste un’arte di vivere capace di mutare in bellezza anche il dolore del metrò, quello senza tregua e di ogni giorno?
Esiste una felicità compatibile con la fragilità?
Una luce viene ...dall’uovo di Pasqua. Questo simbolo di vita nuova è però il frutto degli spigoli della Croce. Quando l’apostolo Tommaso, assente all’apparizione del Risorto, dice agli altri che crederà solo se potrà mettere il dito nelle ferite di Cristo, chiede l’essenziale: è veramente felice solo una vita che non ignora il dolore, la sconfitta, la morte, ma che li attraversa e supera, mostrandone, appunto, le credenziali. Tommaso vuole la garanzia che il Risorto sia proprio il Crocifisso. Noi oggi abbiamo rimosso la Croce, prima che dalle pareti, dalla vita: l’imperativo di una felicità fatta di ciò che è definito «vincente» è incompatibile con la sconfitta. Ma «prendere» - come dice Cristo - «la croce di ogni giorno» significa innanzitutto imparare a dare un significato alla vita tutta intera, ad ogni suo aspetto: anche al dolore dei corridoi del metrò.
La sofferenza, per l’etica del successo come imperativo, è luogo di disperazione e va eliminata. Per un’arte di vivere integrale, invece, la sconfitta diventa un prezioso luogo di verità, ricerca, iniziativa.
Prendere la croce di ogni giorno non significa desiderare il dolore, ma riuscire a trasformare in bellezza il limite di quel giorno: è la sola via che libera dal risentimento e dalla paura che paralizzano le energie creative, l’inventiva e l’azione.

 

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      Bollettino La Lettera