letterina 20180225

Neve, insegnami tu come cadere...

Natale è passato ormai da mesi, ma, forse per il clima che continua con freddo e neve, si sente ancora spesso una canzone della coppia glitterata Giorgia e Mengoni: “Come neve”. "Neve insegnami tu come cadere nelle notti che bruciano, a nascondere ogni mio passo sbagliato e come sparire senza rumore" cantano nella prima strofa i due cantanti, in questa sorta di preghiera invernale. La neve è straordinariamente presa a modello, per insegnare agli uomini ad amare (scrive una ragazza sui social); grandi sono infatti gli insegnamenti che un fiocco può impartire: cade dal cielo, si scioglie al calore, non fa rumore, è leggero. Neve, ci insegna come affrontare le cadute senza farsi troppo male e mascherare il proprio dolore agli altri, nascondendolo dietro a un’apparenza distorta. E questo simpatico amore mi permette di fare tutta una serie di cose, tipo non esserci, scappare senza essere rincorso, cadere senza essere visto e sentito.. ovvero, in sintesi: esserci come non esserci.
Poi, leggendo un articolo, non posso non mettere in relazione il modo con cui una scrittrice inglese definisce i ventenni americani e britannici. Parla dei giovani come della “Generation Snowflake”, generazione fiocco di neve, perché incapaci di affrontare tutto ciò che si pone come problematico o che viene percepito come offensivo, solo perché contrasta con il loro modo di pensare. Sono così fragili che, di fronte a un’idea diversa dalla loro, chiedono che venga eliminata per essere lasciati in pace.
Accade perché non sono assolutamente in grado di opporsi a visioni differenti con argomentazioni ragionevoli. Sono inconsistenti come fiocchi di neve, appunto.
Mi consolo subito: si sta parlando dei giovani americani e britannici.
I nostri, o comunque quelli che anch’io conosco a Palazzago e dintorni non sono così. O forse anche sì. Mah, su questo dovremo tornare...

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letterina 20180218

Noi cadiamo e ci rialziamo

La Chiesa ci offre con il tempo quaresimale un’occasione per ripensare alla nostra vita, un tempo per “ricominciare” con zelo rinnovato a seguire il Signore, a tradurre l’evangelo nella concretezza del nostro quotidiano. “Ricominciare” è un verbo assai caro alla tradizione spirituale cristiana. Il monachesimo, in particolare, fin dalle sue origini ha colto l’urgenza evangelica di un’incessante conversione per ricominciare ogni giorno, nonostante le cadute e le infedeltà, ad amare il Signore e i fratelli. Di Antonio il Grande si racconta che «non si ricordava del tempo trascorso, ma ogni giorno, come se incominciasse in quel momento, intensificava i suoi sforzi per progredire e ripeteva continuamente le parole di Paolo: “Dimentico del passato, tendo verso ciò che sta innanzi’ (Fil 3,13)”» (Vita di Antonio 7).
Nei Detti dei padri del deserto si riportano queste parole di un anziano monaco: «C’è una voce che grida all’uomo fino all’ultimo respiro: oggi, convertiti!» (Nau 10).
Questo incessante ricominciare riguarda il singolo credente, la Chiesa, la comunità monastica, ogni comunità cristiana. Papa Giovanni XXIII, che ben conosceva la tradizione patristica, diceva che la Chiesa deve essere “la grande ricominciatrice”, non deve arrendersi mai al male, alla tiepidezza, all’ipocrisia. Solo in Gesù, Parola fatta carne, non vi è alcuna distanza tra il dire e il fare, tra parola e azione. Nessuno può sentirsi privo di peccato, puro da ogni falsità, ma dietro al Signore, forti del suo amore, ci è chiesto di non rassegnarci all’ipocrisia che sempre insidia la nostra vita, alla menzogna che ci fa portare il nome di cristiani, ma compiere azioni indegne di questo nome.
L’ipocrisia è lo svuotamento del comandamento del Signore che ci chiede di amare con l’adesione di tutto il nostro essere, cuore, anima, mente (Dt 6,5), di ricondurre ogni nostro agire alla radice, alla profondità del nostro cuore in un rinnovato cammino di unificazione tra cuore e labbra, tra parola e azione.
La lotta spirituale consiste in un ripetuto sforzo per ricongiungere parola e vita, in un’incessante invocazione della misericordia di Dio perché venga lui stesso a colmare l’abisso tra ciò che diciamo di credere e ciò che viviamo, tra le parole della fede e la vita di fede. I grandi santi che di generazione in generazione hanno dato avvio alla riforma della chiesa o alla riforma della vita monastica, hanno sempre condotto una strenua battaglia contro il formalismo religioso, contro l’acconsentimento alla terribile tentazione di limitarsi a rivestire le sembianze di cristiani.
Un giorno un monaco sapiente a chi gli chiedeva che cosa facessero i monaci in monastero rispose con queste parole: «Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo ancora» (T. Collandier, Il cammino dell’asceta, p. 55).
La vita monastica, o meglio la vita cristiana in qualsiasi vocazione sia vissuta, è un “luogo” nel quale si cade e si rialza, e di nuovo si cade e ci si rialza fino al giorno in cui il Signore tornerà e troverà che siamo caduti, ma ci stiamo rialzando e allora lui stesso ci rialzerà definitivamente. La perseveranza nella preghiera, nell’ascolto della parola di Dio, nell’eucarestia, nella comunione fraterna sostengono il credente nella lotta contro la rassegnazione alla propria mediocrità, contro l’assuefazione al male o la complicità con esso, e ravvivano nel cuore il desiderio di Dio, desiderio insaziabile, desiderio rinnovato dalla continua esperienza della misericordia di Dio nella propria vita.

Lisa Cremaschi. Da: Verso la Pasqua 2018 Acli Bg

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letterina 20180211

L'amore di molti si raffredderà...

Cari fratelli e sorelle,

ancora una volta ci viene incontro la Pasqua del Signore! Per prepararci ad essa la Provvidenza di Dio ci offre ogni anno la Quaresima, «segno sacramentale della nostra conversione», che annuncia e realizza la possibilità di tornare al Signore con tutto il cuore e con tutta la vita.

Anche quest’anno, con il presente messaggio, desidero aiutare tutta la Chiesa a vivere con gioia e verità in questo tempo di grazia; e lo faccio lasciandomi ispirare da un’espressione di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Per il dilagare dell’iniquità l’amore di molti si raffredderà» (24,12).

Questa frase si trova nel discorso che riguarda la fine dei tempi e che è ambientato a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, proprio dove avrà inizio la passione del Signore. Rispondendo a una domanda dei discepoli, Gesù annuncia una grande tribolazione e descrive la situazione in cui potrebbe trovarsi la comunità dei credenti: di fronte ad eventi dolorosi, alcuni falsi profeti inganneranno molti, tanto da minacciare di spegnere nei cuori la carità che è il centro di tutto il Vangelo.

I falsi profeti

Ascoltiamo questo brano e chiediamoci: quali forme assumono i falsi profeti?

Essi sono come “incantatori di serpenti”, ossia approfittano delle emozioni umane per rendere schiave le persone e portarle dove vogliono loro. Quanti figli di Dio sono suggestionati dalle lusinghe del piacere di pochi istanti, che viene scambiato per felicità! Quanti uomini e donne vivono come incantati dall’illusione del denaro, che li rende in realtà schiavi del profitto o di interessi meschini! Quanti vivono pensando di bastare a sé stessi e cadono preda della solitudine!

Altri falsi profeti sono quei “ciarlatani” che offrono soluzioni semplici e immediate alle sofferenze, rimedi che si rivelano però completamente inefficaci: a quanti giovani è offerto il falso rimedio della droga, di relazioni “usa e getta”, di guadagni facili ma disonesti! Quanti ancora sono irretiti in una vita completamente virtuale, in cui i rapporti sembrano più semplici e veloci per rivelarsi poi drammaticamente privi di senso! Questi truffatori, che offrono cose senza valore, tolgono invece ciò che è più prezioso come la dignità, la libertà e la capacità di amare. E’ l’inganno della vanità, che ci porta a fare la figura dei pavoni… per cadere poi nel ridicolo; e dal ridicolo non si torna indietro. Non fa meraviglia: da sempre il demonio, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), presenta il male come bene e il falso come vero, per confondere il cuore dell’uomo. Ognuno di noi, perciò, è chiamato a discernere nel suo cuore ed esaminare se è minacciato dalle menzogne di questi falsi profeti. Occorre imparare a non fermarsi a livello immediato, superficiale, ma riconoscere ciò che lascia dentro di noi un’impronta buona e più duratura, perché viene da Dio e vale veramente per il nostro bene.

Un cuore freddo

Dante Alighieri, nella sua descrizione dell’inferno, immagina il diavolo seduto su un trono di ghiaccio; egli abita nel gelo dell’amore soffocato. Chiediamoci allora: come si raffredda in noi la carità? Quali sono i segnali che ci indicano che in noi l’amore rischia di spegnersi?

Ciò che spegne la carità è anzitutto l’avidità per il denaro, «radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10); ad essa segue il rifiuto di Dio e dunque di trovare consolazione in Lui, preferendo la nostra desolazione al conforto della sua Parola e dei Sacramenti. Tutto ciò si tramuta in violenza che si volge contro coloro che sono ritenuti una minaccia alle nostre “certezze”: il bambino non ancora nato, l’anziano malato, l’ospite di passaggio, lo straniero, ma anche il prossimo che non corrisponde alle nostre attese.

Anche il creato è testimone silenzioso di questo raffreddamento della carità: la terra è avvelenata da rifiuti gettati per incuria e interesse; i mari, anch’essi inquinati, devono purtroppo ricoprire i resti di tanti naufraghi delle migrazioni forzate; i cieli – che nel disegno di Dio cantano la sua gloria – sono solcati da macchine che fanno piovere strumenti di morte.

L’amore si raffredda anche nelle nostre comunità: nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium ho cercato di descrivere i segni più evidenti di questa mancanza di amore. Essi sono: l’accidia egoista, il pessimismo sterile, la tentazione di isolarsi e di impegnarsi in continue guerre fratricide, la mentalità mondana che induce ad occuparsi solo di ciò che è apparente, riducendo in tal modo l’ardore missionario.

Cosa fare?

Se vediamo nel nostro intimo e attorno a noi i segnali appena descritti, ecco che la Chiesa, nostra madre e maestra, assieme alla medicina, a volte amara, della verità, ci offre in questo tempo di Quaresima il dolce rimedio della preghiera, dell’elemosina e del digiuno.

Dedicando più tempo alla preghiera, permettiamo al nostro cuore di scoprire le menzogne segrete con le quali inganniamo noi stessi, per cercare finalmente la consolazione in Dio. Egli è nostro Padre e vuole per noi la vita.

L’esercizio dell’elemosina ci libera dall’avidità e ci aiuta a scoprire che l’altro è mio fratello: ciò che ho non è mai solo mio. Come vorrei che l’elemosina si tramutasse per tutti in un vero e proprio stile di vita! Come vorrei che, in quanto cristiani, seguissimo l’esempio degli Apostoli e vedessimo nella possibilità di condividere con gli altri i nostri beni una testimonianza concreta della comunione che viviamo nella Chiesa. A questo proposito faccio mia l’esortazione di san Paolo, quando invitava i Corinti alla colletta per la comunità di Gerusalemme: «Si tratta di cosa vantaggiosa per voi» (2 Cor 8,10). Questo vale in modo speciale nella Quaresima, durante la quale molti organismi raccolgono collette a favore di Chiese e popolazioni in difficoltà. Ma come vorrei che anche nei nostri rapporti quotidiani, davanti a ogni fratello che ci chiede un aiuto, noi pensassimo che lì c’è un appello della divina Provvidenza: ogni elemosina è un’occasione per prendere parte alla Provvidenza di Dio verso i suoi figli; e se Egli oggi si serve di me per aiutare un fratello, come domani non provvederà anche alle mie necessità, Lui che non si lascia vincere in generosità?

Il digiuno, infine, toglie forza alla nostra violenza, ci disarma, e costituisce un’importante occasione di crescita. Da una parte, ci permette di sperimentare ciò che provano quanti mancano anche dello stretto necessario e conoscono i morsi quotidiani dalla fame; dall’altra, esprime la condizione del nostro spirito, affamato di bontà e assetato della vita di Dio. Il digiuno ci sveglia, ci fa più attenti a Dio e al prossimo, ridesta la volontà di obbedire a Dio che, solo, sazia la nostra fame.

Vorrei che la mia voce giungesse al di là dei confini della Chiesa Cattolica, per raggiungere tutti voi, uomini e donne di buona volontà, aperti all’ascolto di Dio. Se come noi siete afflitti dal dilagare dell’iniquità nel mondo, se vi preoccupa il gelo che paralizza i cuori e le azioni, se vedete venire meno il senso di comune umanità, unitevi a noi per invocare insieme Dio, per digiunare insieme e insieme a noi donare quanto potete per aiutare i fratelli!

Il fuoco della Pasqua

Invito soprattutto i membri della Chiesa a intraprendere con zelo il cammino della Quaresima, sorretti dall’elemosina, dal digiuno e dalla preghiera. Se a volte la carità sembra spegnersi in tanti cuori, essa non lo è nel cuore di Dio! Egli ci dona sempre nuove occasioni affinché possiamo ricominciare ad amare.

Una occasione propizia sarà anche quest’anno l’iniziativa “24 ore per il Signore”, che invita a celebrare il Sacramento della Riconciliazione in un contesto di adorazione eucaristica. Nel 2018 essa si svolgerà venerdì 9 e sabato 10 marzo, ispirandosi alle parole del Salmo 130,4: «Presso di te è il perdono». In ogni diocesi, almeno una chiesa rimarrà aperta per 24 ore consecutive, offrendo la possibilità della preghiera di adorazione e della Confessione sacramentale.

Nella notte di Pasqua rivivremo il suggestivo rito dell’accensione del cero pasquale: attinta dal “fuoco nuovo”, la luce a poco a poco scaccerà il buio e rischiarerà l’assemblea liturgica. «La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito», affinché tutti possiamo rivivere l’esperienza dei discepoli di Emmaus: ascoltare la parola del Signore e nutrirci del Pane eucaristico consentirà al nostro cuore di tornare ad ardere di fede, speranza e carità.

Messaggio del papa per la Quaresima

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letterina 20180204

#SaveThePalio

Cos`è il Palio? Palio è senso di appartenenza, divertimento, vita, impegno, ricordi e (sana) competizione.
Ha il potere di creare legami forti e di educarci allo stare assieme. Non possiamo perdere questa ricchezza.
Quest`anno il Palio rischia di scomparire, di dissolversi nel nulla dopo tanti anni.
Perché? La Segreteria storica da anni chiedeva collaborazioni che non sono arrivate.
Ora nessuno vuole organizzarlo. Certo, molti ancora oggi ci tengono, pensano che sia bello e interessante, magari non avendo mai neppure gareggiato. Ci stiamo addormentando e non ci accorgiamo che stiamo perdendo qualcosa di prezioso! Noi dell`Equipe educativa dell’Oratorio vogliamo essere un campanello d’allarme per svegliarci da questo sonno.
Quest`anno o il Palio rinasce, oppure muore; sta a tutti noi decidere.
Il Palio è una grande festa e per festeggiare c`è bisogno di invitati che rispondano all`invito.
Ecco cosa puoi fare:
Unisciti sotto la bandiera della tua contrada assieme a tanti altri, stai sicuro che c`è già un posto per te. Basta inviare un messaggio al tuo capitano (sotto ti mettiamo i numeri di tutti). Se lo chiami ti darà tutte le informazioni che ti servono (praticamente faranno i call center, ma senza musica d`attesa). Vuoi metterti in gioco per dare forma al Palio 2018? Stai tranquillo, non è questione di lunghe giornate di riunioni e di duro lavoro e non c`è bisogno che tu abbia un`esperienza decennale, serve solo molta passione e voglia di fare. Ricorda però che senza di te la festa proprio non si farà...

Contatta pure Stefano: 347 228 5733.
Rosa: Alberto, 347 016 3867
Blu: Manuel, 380 525 8053
Arancioni: Ermanno, 349 159 3327
Rossi: Sebastiano, 348 663 0976
Verdi: Gianluca, 347 899 4086
Lilla: Michela, 347 909 836

L’Equipe educativa

L’Equipe educativa -di cui ogni Parrocchia si deve dotare- è un gruppo di persone che ha l’obiettivo di custodire le finalità e le istanze fondamentali dell’Oratorio, con la cura educativa per le nuove generazioni in un intreccio di vita e Vangelo.

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letterina 20180128

Razza...umana

Quando Albert Einstein nel 1933 sbarcò negli Stati Uniti compilando i moduli dei funzionari portuali di New York, che chiedevano a quale razza appartenesse, rispose così: “All’unica che conosco, quella umana”.
Ogni anno, le commemorazioni legate alla “Giornata della memoria”, ci riportano davanti agli occhi le immagini terribili dell’Olocausto.
Adolescenti e giovani che hanno partecipato al campo scuola a Monaco, visitando anche Dachau, le hanno ancora davanti agli occhi. La parola “razza” non è neutra. E’ un termine che porta un considerevole carico di sangue e di fantasmi, e il più pesante è proprio quello di Adolf Hitler: “Gli stati attuali, che pensano solo ad un onere finanziario, concedono la cittadinanza senza tenere in considerazione la razza. Essere cittadino tedesco è diverso dall’avere in sangue la razza tedesca.” E ancora ci vengono in mente le “Leggi razziali” di Mussolini e Vittorio Emanuele III, quell’accento sulla “pura razza ariana” da preservare dalla contaminazione giudaica perché (sempre Hitler) “In creature fornite di un forte istinto di razza, la parte rimasta pura tenderà sempre all’accoppiamento fra eguali, impedendo un’ulteriore mescolanza. E con ciò gli elementi imbastarditi passano in secondo piano, a meno che essi non si siano così tanto moltiplicati da impedire la riaffermazione della razza pura”. E poi, ancora, la schiavitù legittimata dall’inferiorità della “razza nera”, l’Apartheid in Sud Africa, la follia del Ku-Klux-Klan. Le parole hanno un peso. Non è un caso che questa, in particolare, sia stata eliminata nel 2014 dalla costituzione francese e da tutti i documenti pubblici, per iniziativa dell’Assemblea Nazionale.
L’Italia non ha seguito l’esempio, l’articolo 3 della nostra Costituzione mantiene questo termine, anche se con chiaro intento anti-discriminatorio: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel frattempo, però, l’utilizzo superficiale e avventato che a volte se ne fa è un monito: dimostra prima di tutto che la Giornata della memoria non è soltanto una “formalità” priva di significato, come alcuni ritengono. In secondo luogo richiama la necessità di un impegno serio in ambito culturale ed educativo a far comprendere – prima di tutto – la natura delle differenze e somiglianze tra società e culture: l’ignoranza e l’oblio sono un terreno fertile per nuovi mostri e nuovi orrori, e gettano polvere su decenni di resistenza civile e di lotta per i diritti umani. Le parole hanno un peso, possono scatenare incendi.  

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letterina 20180121

"Se in chiesa entra l'amore"

Già questo titolo annunciato in internet mi aveva fatto reagire. Poi, sul sito della Diocesi ho trovato un articolo nella rubrica “Diario di un prete” che voglio condividere in alcuni dei suoi passaggi. Il titolo è quello di un articolo di Mancuso che racconta dei funerali di Alex Ferrari e Luca Bortolaso, coppia di giovani omosessuali morti tragicamente nelle feste di Natale. Penso che tutti l’abbiamo sentito nei telegiornali.
Qui non si tratta di imbracciare il Diritto Canonico, canone 1184, sulla negazione delle esequie ecclesiastiche ad alcune categorie di persone (i cosiddetti “peccatori manifesti” i cui funerali costituirebbero scandalo per i fedeli: è l’articolo, ad esempio, per il quale non si è concessa la celebrazione dei funerali in Chiesa di Totò Riina).
Il Diritto Canonico deve essere letto alla luce del Vangelo, non viceversa. Ma ciò che fa specie e, anche, indispettisce è il titolo “Se in Chiesa entra l’amore” che fa nascere spontanea una domanda: fino ad ora cosa c’è stato nella Chiesa? Il memoriale della passione, morte e Risurrezione di Cristo cosa è? I Sacramenti cosa sono? La carità, le opere di bene in generale, l’impegno di tanti, consacrati e laici, cos’è? Non è amore? Un titolo come questo mi inquieta, perché pare suggerire che in Chiesa sia entrato l’amore solo nel momento in cui si è concesso il funerale a una coppia omosessuale. Seppellire i morti è opera di misericordia, pertanto è giusto concedere le esequie ecclesiastiche ad Alex e Luca, però potrebbe esserci un pericolo. È certamente vero che lo sguardo della Chiesa sull’omosessualità sta cambiando; gli studi, anche teologici, stanno lavorando molto sul tema, così come è altrettanto vero che troppe volte le coppie omosessuali sono state oggetto di comportamenti disumani e vergognosi, anche da parte di chi si è definito cattolico. Tuttavia, un titolo come quello in questione sembra quasi lasciar intendere che l’amore omosessuale debba essere visto come la forma paradigmatica dell’amore stesso, come se l’amore tra un uomo e una donna fosse di serie B, pena una Chiesa nella quale l’amore non entra.
No, l’amore è costitutivo della Chiesa, perché la Chiesa è di Dio, che ama tutti e ciascuno, senza distinzioni: sulle altre questioni, continuiamo la riflessione e il confronto civile, nel rispetto della dignità umana e alla luce del Vangelo.

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