E gli altri?

E gli altri?

Alcuni piccoli stralci del “discorso alla città” dell’Arcivescovo Mons. Mario Delpini, per la festa patronale di S. Ambrogio, possono aiutarci a pensare al Natale.

Monsignor Delpini confessa che trova «sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento».

«Mi sembra che tutti coloro che hanno responsabilità vivano quell’inquietudine provocata dall’interrogativo: e gli altri? E gli altri, i bambini che subiscono violenze e abusi? Le altre, le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa? E gli altri, gli anziani soli, chiusi nelle loro case per paura, per abitudine, perché impossibilitati a partecipare alla vita sociale? Gli altri, quelli che non hanno voce, quelli che abitano la città senza che noi ce ne accorgiamo? Gli altri, quelli per cui non abbiamo stanziato risorse sufficienti? E gli altri, quelli che non vanno a scuola, quelli che non lavorano? E gli altri, quelli che non hanno casa, quelli che non hanno assistenza sanitaria? E gli altri, quelli che lavorano troppo e sono pagati troppo poco? E gli altri, quelli che subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si insinua dovunque può conquistarsi profitti e potere? E gli altri, i ragazzi che si associano per commettere violenze, per rovinare i muri della città e le cose di tutti, per rovinare la propria giovinezza e rendersi schiavi di dipendenze spesso irrimediabili?».

Fin qui l’inquietudine manifestata dall’Arcivescovo, che però «non è un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i rapporti tra i popoli».

L’inquietudine e il realismo sono «le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana» e che non è «un’ingenuità consolatoria, è piuttosto la risposta alla promessa che chiama a desiderare la vita, la vita buona, la vita nella pace, la vita dono di Dio. Il realismo della speranza ama sostare in preghiera e in silenzio, resiste alla tentazione della superficialità e della fretta, percorre la via della sincerità, evita le maschere, il conformismo, la viltà».

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